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Meglio sola…
Per essere una che non ama le scrittrici, ultimamente mi capita di leggere molti libri scritti da donne che mi piacciono. C’è da dire che di solito sono giornaliste, intellettuali, autrici di genere. Non so se significhi qualcosa questo.
Nel 1979 Martha Gellhorn, grande corrispondente di guerra, pubblica “Travels With Myself and Another”: i suoi appunti di viaggio raccolti in oltre trent’anni di onorata carriera di “viaggiatrice professionista”; solo ora il libro sbarca in Italia grazie alla casa editrice “Fbe- magenes” in una edizione molte raffinata, con traduzione di Guido Lagomarsino e prefazione di Martina Graziella e il titolo di In viaggio da sola e con qualcuno.
L’idea di partenza del libro è che gli unici racconti di viaggio capaci di risvegliar l’interesse dell’ascoltatore (e del lettore) siano quelli disastrosi, pieni di disavventure e catastrofi, forse per esorcizzare l’invidia verso chi gira il mondo convincendosi che dopo tutto è meglio restarsene a casa. Ed infatti la decisione di scrivere dei suoi viaggi dopo anni trascorsi a raccontare la guerra, quasi ogni guerra che ha insanguinato il ‘900, è venuta alla Gellhorn mentre se ne stava immersa nelle acque poco profonde dell’isola di Creta, circondata da lattine arrugginite, pacchetti di sigarette vuoti e bottiglie rotte che le galleggiavano attorno, cercando di capire come fosse finita in quella discarica a cielo aperto.
Martha Gellhorn viaggia per lavoro, si occupa delle corrispondenze del “Collier’s” che la spedisce in Cina per la guerra sino-giapponese ma si mette in viaggio anche per capire di più di questo mondo e assecondare le sue curiosità, arrivando in Africa e persino in Russia sulle tracce di poeti dissidenti. Gira il mondo in solitaria ma in Cina è accompagnata dal “qualcuno” del titolo, chiamato nel libro “CR”, ossia “Compagno Riluttante” (“Unwilling Companion” nella versione originale): si tratta di suo marito Ernest Hemingway, con cui ha vissuto una tormentata relazione durata cinque anni e scandita dai conflitti che hanno visto entrambi protagonisti, visto che si sono conosciuti durante la guerra civile in Spagna e separati dopo lo sbarco in Normandia.
Insieme hanno affrontato il viaggio in Cina nel 1941. La Gellhorn ha letteralmente trascinato Hemingway in quell’impresa e questa è una cosa che probabilmente lui non le ha mai perdonato davvero. Martha è partita per l’Oriente piena di aspettative, perché era cresciuta immersa in fantasticherie sulla via della seta alimentate dai libri di Maugham e dalle avventure di Fu Manchu, ma la realtà non è stata all’altezza delle sue aspettative e il mitico Catai si è rivelato un vero inferno dove il tempo aveva “la dannata abitudine di non passare mai”. E al suo “CR” che la prendeva in giro raccomandandole di portarsi dei mutandoni lunghi nel suo prossimo soggiorno cinese, la giornalista rispose: “Preferirei saltare giù dall’Empire State Building in mutandoni che rimettere piede in Cina”.
L’anno successivo la ritroviamo a caccia di storie nell’Arcipelago dei Caraibi per raccontare la guerra del mare che aveva visto già più di duecentocinquantuno mercantili affondati dai sottomarini tedeschi mentre nel 1962 è pronta a lasciarsi assalire dal mal d’Africa: “Per me era una vasta pianura color pelle di animali selvatici, cinta da montagne azzurre”. Ma il continente nero non è solo questo e Martha lo imparerà suo malgrado, sebbene alla fine le entri nel cuore tanto da decidere di viverci per un po’, lei che aveva fatto del nomadismo uno stile di vita.
Nel 1972 Martha Gellhorn entra nel vivo della Guerra Fredda e parte per la Grande Madre Russia per incontrare Nadežda Jakovlevna Chazina vedova del poeta dissidente Osip Emil’evič Mandel’štam arrestato per attività antisovietica e morto nel 1938 in un lager presso Vladivostok. Le due donne si erano scritte a lungo prima di quell’incontro, Martha era stata affascinata da un libro della Chazina, trovato anni prima in una biblioteca e ammirava questa donna tenace e coraggiosa che lottava per tenere viva la memoria del marito. Parte dunque per la Russia desiderosa dell’incontro ma ben sapendo che quello sarebbe stato un altro horror trip, tra problemi logistici e incomprensioni linguistiche, e quando arriva a Mosca trova deludente l’atmosfera in cui versano i poeti dissidenti amici della Chazina: “Non avevo mai visto persone tanto cupe e ammusonite”.
Nell’ultimo reportage, descrive invece gli interminabili giorni trascorsi in una cisterna d’acqua in disuso a Eilat in Israele in compagnia di giovani hippies interessati solo alla qualità dell’hascisc.
Che si trovi nelle acque paludose del Ciad o nelle fangose retroguardie dell’armata cinese, la Gellhorn non perde mai la sua ironia, che sostiene una scrittura sia pure squisitamente referenziale, priva di una vera e propria volontà di stile. “In viaggio da sola e con qualcuno” susciterà il plauso di quanti, come David Randall del “The Independent”, ritengono che un giornalista debba metter da parte ogni tentazione di render più sofisticata la sua prosa, per limitarsi a raccontare ciò che vede. E tuttavia l’ironia della Gellhorn riporta alla mente, aldilà del puro sforzo da cronista, certi gustosi libri di viaggio scritti da autori britannici (il riferimento potrebbe essere un Peyrefitte in gonnella, ma con quell’ombra di disincanto che sovente si ritrova nella penna di chi ha veduto in opera, per via del suo mestiere di giornalista, le più tristi e violente vicende umane).
D’altronde la stessa Gellhorn ha più volte dato segno di “sentire” il suo mestiere di giornalista come una missione, come quando ha detto: “Per orribile che sia stato l’ultimo viaggio, non rinunceremo per questo al prossimo, lo sa Dio perché”.