Museo Napoleonico
Intervento di Umberto Broccoli
Santa Margherita Ligure, 1889.
Guy de Maupassant passeggia per le stradine del centro.
Abbiamo lasciato Portofino per un soggiorno a Santa Margherita. Non è affatto un porto, ma il fondo di un golfo appena protetto da un molo. La terra è talmente attraente da far quasi dimenticare il mare. La città è riparata dall’angolo cavo di due montagne, separate da una valle che va verso Genova. Sulle due coste, innumerevoli piccole strade strette fra muri di pietra alti circa un metro, si incrociano, salgono, scendono, vanno e vengono, strette, pietrose, a gradinate e separano innumerevoli campi o, meglio, giardini di ulivi e fichi inghirlandati dai pampini rossi. Attraverso le foglie bruciate delle viti abbarbicate agli alberi si scorge il mare a perdita d’occhio, i promontori rossi, i villaggi bianchi, i boschi di abete sui pendii e le grandi cime di granito grigio. Qua e là si incontrano delle case, davanti alle quali le donne fanno il merletto. In tutto il paese, d’altra parte, non vi è nessuna porta dove non siano sedute due o tre lavoratrici che si applicano all’opera che hanno ereditato e che maneggiano con le dita leggere i numerosi fili bianchi o neri a cui sono appesi dei piccoli pezzi di legno giallo, che danzano e saltellano in continuazione. Esse sono spesso graziose, alte e fiere d’aspetto, ma trasandate, senza cura di sé e senza civetteria. Molte conservano ancora tracce di sangue saraceno.
Sembra di risentire i profumi. Sembra di vedere il colore blu duro del Mar Ligure. Sembra di ascoltare le parole delle donne sedute fuori l’uscio a far merletti. Un’arte antica, antichissima. Un’arte arrivata direttamente da mondi lontanissimi: dai primi telai sui quali la donna faceva correre le sue dita per tessere panni utili a coprirsi dal freddo. Un’arte presente nelle città medievali d’ Europa, in cui - sempre le donne - facevano nascere panni e racconti intrecciando fili e parole insieme. E, altrettanto spesso, non fiorivano amori: spin in inglese è la conocchia, elemento fondamentale per filare la lana. Da cui deriva spinster, zitella, evidentemente troppo impegnata nell’arte di tessere.
Guy si ferma affascinato dalle dita leggere, dai fili bianchi e neri, dalla danza dei pezzetti di legno giallo, dall’aspetto delle ragazze, belle, ma sciatte da cui il rischio di restare spinster. Se ne intuiscono i discorsi: “avete sentito della Rosa?”, “No, cosa è successo?”, “Ha avuto un bimbo!”, “Che bello!”, “E se sapeste quanto è bello veramente. Lo ha chiamato Pietro, come il nonno”.. e così si andava avanti per ore. Immaginate se i merletti in mostra potessero far danzare di nuovo, dopo secoli, le parole ascoltate: quante emozioni restituirebbero. Quante storie, quanti sorrisi, quanti discorsi, quanti
dispiaceri, leniti proprio da quelle dita leggere attente ad intrecciare fili e ricordi, figure e parole, merletti e pensieri. Proprio così: lavorando, i dispiaceri si stemperavano negli arabeschi. Perché, si sa, intrecciare i fili di un merletto spesso equivale a meditare, a fermare il pensiero, a creare i presupposti per riproporre, ancora una volta, la capacità delle donne di aspettare, concentrarsi,
conservare momenti essenziali dell’esistente, passati tutti tra le dita di una mano. Come un filo di merletto.
Umberto Broccoli